L’Infuso delle 17, di mercoledì 12 marzo 2025

 

TRE TAZZE SBECCATE

 

 

Ho tre tazze sbeccate nella credenza.

Attendo di comprarne di nuove. Intanto mi tengo queste. Meglio che niente! Forse potrei ripararle, impreziosendole come si fa nella tecnica giapponese del kintsugi. Mi piacerebbe, ma non lo faccio, la mia attenzione e il mio tempo sono costantemente richiamati altrove. Sempre in altre prioritarie faccende affaccendato. E poi non so se ne sono davvero capace, rimarginare crepe con stucco e polvere d’oro mi sembra un’attività che richiede troppa dedizione, e poi dove si prende la polvere d’oro? No, faccio prima a comprare altre tazze. Magari più belle. Nel frattempo mi tengo queste sbeccate. Non posso buttarle, altrimenti come faccio a bere il tè?

Meglio che niente!

Eppure, qualcosa mi rode dentro…

E se invece le buttassi via? Ne rimarrei senza, certo, ma se questa fosse una chiave? Decidere, ora, di liberarmi delle tazze sbeccate. Ancora non ne ho acquistato di nuove ma voglio osare, voglio sperimentare. Magari le regalo – ma a chi interessano mai tre tazze sbeccate -, oppure le spacco, riducendole in tante piccole schegge da usare per la tombola a Natale (che da piccolo questo era il destino ricicloso di tanti piatti di ceramica che si rompevano durante l’anno: diventare vreccilli, ossia brecciolini, ciottolini, con cui pericolosamente segnare i numeri al posto degli attuali fagioli, che ai tempi noi preferivamo destinare alla pentola e alla panza).

Insomma, me ne libero, correndo il rischio restando senza. “Certo, erano meglio quelle che niente!”, continua a ripetermi una vocina nel cervello. Forse questa vocina siete voi che state leggendo…

E ora? Che succede? Tecnicamente al momento non posso bere il tè. Ma intanto vedo che ho fatto spazio nella credenza. In verità ci metto poco ad accorgermi – dato che l’esigenza, in questo caso di bere il tè, è un grande motore all’invenzione – che posso bere il tè anche in un comune bicchiere di vetro, o un calice da vino, che fa più chic. Sembra una soluzione banale ma non lo è affatto. Anzi, osservare le sfumature di questo infuso attraverso la trasparenza bombata del suo novello inusuale contenitore – che bello quando si scopre un nuovo uso di una cosa destinata ad altro! – mi dona una certa piacevole voluttà. In più, ho fatto spazio! Non solo nella credenza, ma ho fatto spazio anche a nuove possibilità, al calice da vino per il tè per esempio. Ma non solo. Ho fatto spazio in me alla presa di coscienza che, in fondo in fondo, di tazze non ne ho veramente bisogno, facendo quindi a meno di andare a comprarne altre.

Lasciare spazio al niente.
Sembra facile, eppure di questi tempi è un lusso. Secondo stantie logiche produttive ormai ereditate e introiettate lo è. Si tratta di togliere, di rinunciare, non di aggiungere o incrementare. Sembra la cosa più naturale ma non lo è affatto, di questi tempi. Ad essere onesti con noi stessi, quante volte durante un giornata ci concediamo di lasciare spazio, scegliendo il niente? Quante volente lasciamo che le cose accadano piuttosto che impegnarci per farle accadere a tutti i costi?

Quante volte riusciamo a lasciare “il fare” a favore del “lasciar fare”?

Interveniamo costantemente, ogni deviazione da un percorso illusoriamente prestabilito ci allarma: se c’è qualcosa che accade di non previsto ci sentiamo richiamati ad intervenire per riportarlo sulla “retta via” del nostro iniziale progetto, in una costante esasperata tensione alla “correzione” di qualsiasi devianza da ciò che consideriamo conforme a quanto prestabilito. E al tempo stesso, ci aggrappiamo disperatamente a ciò che ci resta e che non va, perché il vuoto che si crea nella scelta del niente ci atterrisce. E allora, meglio questo (che non va) che niente…

E se fosse meglio il niente?

Pur sapendo ormai che una cosa, una situazione, un legame, non è sano, in mancanza “di meglio” spesso preferiamo tenerci “questo peggio”, perché “questo peggio” è meglio che niente…

E se fosse meglio il niente?

Ho un lavoro di merda, vengo trattato da schifo, non sono soddisfatto, mi sento reprimere nelle mie capacità e aspirazioni, e poiché “ho da pagare le bollette” – altro illusorio pretesto per giustificare la propria incapace accidia – mi tengo questo lavoro di merda perché meglio che niente!

E se fosse meglio il niente?

Ho un compagno, una compagna, un marito o una moglie – o anche un amante -, con cui gioco al massacro quotidiano, in una dinamica tossica in cui siamo devastanti e devastati, vorremmo essere altrove ma… meglio che niente!

E se fosse meglio il niente?

Vivo in un appartamento in periferia, in un condominio dove devo fare attenzione a come mi muovo perché i vicini si lamentano; mi affaccio alla finestra e vedo solo cantieri, ma resto qui perché questo mi posso permettere e intanto… meglio che niente!

E se fosse meglio il niente?

Il niente richiede un coraggio mostruoso. Il coraggio del mostro, nel senso del monstrum, il coraggio che si ha solo nella dimensione della meraviglia e del portento. Io ho scoperto la bellezza del tè nel calice da vino. Ma se dovessi rompere anche fino all’ultimo calice da vino, a questo punto credo che l’esigenza reale, che è quella del tè e non quella della tazza, mi possa guidare verso un altro mondo perché io possa goderne. Inizio così a prendere fiducia nel fatto che fare spazio, permettere al senso di vuoto di manifestarsi, non possa che arricchirmi nel quotidiano processo di scoperta delle piccole cose, così come delle cose grandi.

E la fiducia diventa Fede che il niente è meglio del “meglio che niente”.

Ho tre tazze sbeccate nella testa…

Cosa faccio ora? Le lascio lì, tanto è meglio che niente o me ne libero, facendo spazio in me scegliendo il niente? Forse faccio spazio nella mia testa, spazio a nuove possibilità e alla consapevolezza che la mia mente di queste tazze sbeccate non ne ha affatto bisogno.

Valentino Infuso

 

Immagine: “Tre tazze nel Cosmo”
(elaborazione personale con Stupidera Artificiale)


tratto da “Scritti da Porto X, vol.2” – Edizioni Sovversive Porto X

 

 

 

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