Attenzione: questo scritto contiene espliciti contenuti che vanno al di là del bene e del male.
Se reputi di essere in grado di accoglierli, puoi proseguire nella lettura. Altrimenti, per la tua stabilità emotiva, astieniti.
Essere invisibili
Essere invisibili richiede un’altissima comprensione di Sé. Mi riferisco al comprendere non come sinonimo di capire o accondiscendere, ma nel suo senso epistemologico di com–prendere:
prendere con sé Se stessi.
Se prendo me con Me, non occorre che me venga preso dagli altri. La necessità di essere com-preso dagli altri porta ad una inevitabile e forzata presa di posizione in esposizione affinché io sia visibile. Voglio che mi si veda! Perché se non mi vedono gli altri io non esisto! Se il mio valore non viene riconosciuto dagli altri, non c’è valore che io possa riconoscere a me stesso! Ecco perché è necessario essere com-prensivi (con) se stessi: per poter finalmente semplicemente squisitamente liberamente essere invisibili.
L’invisibilità dà la chiave d’accesso all’essenza di ogni fenomeno vivente.
Per essere invisibili occorre quindi avere un altissimo livello di com-prensione di sé, e per com-prendere se stessi, occorre PRATICARE.
Che cos’è la Pratica
Chiariamo subito un facile equivoco: praticare non coincide col fare (quanti fanno fanno fanno, tante cose fanno, eppur senza mai praticare!). La differenza sostanziale tra fare e praticare è una questione di ritmo: ciò che faccio ripetutamente in un certo lasso di tempo costituisce la mia pratica. La ritmizzazione rende il mio fare una pratica, che ci piaccia o no quel determinato fare.
Per esempio, se mi accendo una sigaretta, una nella vita, posso dire di aver fumato; ma se ritmizzo il fumare con costanza, accendendomi 1, 5, 10, 20 o 30 sigarette al giorno per mesi o, più ricorrentemente, per anni, posso allora affermare che sto praticando il fumo, che quella del fumo è una mia pratica costante, perché ritmizzata nel tempo. Se faccio 50 flessioni sulle braccia e poi più nulla per mesi, posso affermare di aver fatto 50 flessioni ma non che pratico le flessioni; ma se eseguo 5 flessioni al giorno per anni allora quella delle flessioni sulle braccia farà parte della mia pratica.
La pratica definisce io chi sono: io sono un fumatore, io sono un atleta.
Un detto buddista afferma:
“Se vuoi sapere cosa hai praticato, guarda chi sei.
Ma se vuoi sapere chi sarai, osserva ciò che stai praticando.”
Io chi sono? Cosa ho praticato finora e cosa sto tuttora praticando in questa mia brevissima e relativamente significante vita? E, praticando praticando, chi io sarò? Personalmente il chi sarò ha smesso di occupare spazio in me già da un bel po’. A me interessa il chi sono, costantemente io chi sono.
Tento una risposta osservando cosa sto ritmizzando in questo frangente. Osservo con lucidità, distacco e, soprattutto, onestà -quella onestà cruda e spietata di ammettere come stanno le cose. Una volta che così ho osservato, posso chiedermi: mi piace, non mi piace…? voglio cambiare, mi va bene così…? voglio essere “migliore”, non ce la faccio, io sono così…? voglio restare dove sono, voglio “evolvere”…?
Evolvere
L’evoluzione non ha qualità, non è un concetto di per sé “positivo” (altro termine decisamente abusato e fuorviante nel suo utilizzo dicotomico contrapposto a “negativo”: non esiste positivo disgiunto dal negativo), come non è “negativo” (appunto). Ha in sé entrambe le qualità, altrimenti non sarebbe evoluzione ma un paradosso.
Evolvere è lo sviluppo del Sé attraverso le proprie pratiche.
Il chitarrista che pratica la sua chitarra tutti i giorni per diverse ore al giorno, evolverà nella sua tecnica e nelle emozioni che saprà trasmettere nei cuori di chi ascolta la musica che sgorga dal suo strumento. Ma anche il torturatore che affina con costanza le sue pratiche sadiche ogni giorno per anni, evolverà in questa pratica attraverso la ritmizzazione costante dell’uso dei suoi attrezzi di tortura e nella capacità di provocare un dolore sempre più raffinato e atroce nelle sue vittime. Musicista e torturatore evolveranno entrambi se il loro fare viene ritmizzato diventando pratica. Cosa sto affermando mai? Che il torturatore, l’assassino, possono evolvere? Sì, certo. E l’ evoluzione intesa come evoluzione dell’anima? Come può mai evolvere l’anima del torturatore, l’anima dell’assassino? Anche quella evolve? Sì, anche l’anima dell’assassino evolve attraverso la ritmizzazione della sua pratica omicida. Evolve, ma in quale direzione? Questione neanche tanto rilevante in questo momento. Non saprei, usualmente immaginiamo verso il basso (riaffermando così un’altra dicotomia dopo quella positivo-negativo, ossia alto-basso, e non esiste alto se non riferito a qualcosa che sta più in basso e viceversa). Mi spiego meglio. Credo che ogni evoluzione in ciascuna delle due direzioni, verso l’alto o verso il basso, possa contemporaneamente espandere la possibilità di evoluzione contemporaneamente e inscindibilmente anche nella direzione opposta. Assassini che espandono la propria anima verso il basso creano possibilità di atti taumaturgici inaspettati. È successo. Le storie dei santi ne sono un esempio lampante a livello archetipico. Di contro, artisti che hanno raggiunto picchi di bellezza eccelsa e di divina estasi, sono stati capaci anche dei peggiori delitti e nefandezze. E’ successo. Le storie dei grandi della pittura sono un esempio lampante a livello archetipico. Quello che dico è che ogni espansione verso l’alto crea equivalenti possibilità verso il basso, ed ogni espansione verso il basso crea equivalenti possibilità verso l’alto. È l’essenza dell’umano.
E dov’è allora il confine tra giusto e sbagliato? Tra bene e male?
A questo punto, se avete seguito con attenzione quanto scritto finora, diventa per me inutile ribadire che non credo in queste dicotomie. L’ho appena ribadito (il che conferma che non esiste neanche un non ribadire senza il ribadire). Niente è giusto e niente è sbagliato eppure tutto è giusto e tutto è sbagliato; niente è bene e niente è male eppure tutto è bene e male.
L’evoluzione è un percorso di espansione in tutte le possibili direzioni.
Quello che conta è la scelta di dove collochiamo la nostra coscienza rispetto a questa espansione infinita.
Disciplina
Ma allora la pratica non è altro che disciplina? No, ma la seconda è sicuramente a fondamento della prima: serve disciplina perché un fare possa diventare una pratica. Serve disciplina nell’osservazione onesta, disciplina nella scelta, disciplina nello scardinare l’inerzia di una pratica già radicata, disciplina nell’avvio di un nuovo fare, e soprattutto, disciplina nel mantenere il ritmo di questo nuovo fare, affinché diventi la mia nuova pratica.
Fino a quando? Fino a che non si renda necessario un nuovo fare, un nuovo ritmo, una nuova pratica. E non basta una vita, ecco perché l’Universo è così generoso.
Perciò, siate invisibili! Siate ritmo!
Valentino Infuso